Approfittando dei grandi progressi tecnologici (come le tecniche di neuro-imaging, utilizzate per fotografare l’attività cerebrale), la neuroretorica introduce nelle discipline tradizionali strumenti e conoscenze nuovi, senza per questo voler snaturare il significato e le condizioni di possibilità dei processi di persuasione, che resta lo scopo primario della retorica in tutte le epoche. Non per caso nessuna agenzia di comunicazione fa ormai a meno di un buon manuale di retorica, ed è soprattutto nelle headlines, le sequenze verbali che normalmente stanno nella parte superiore di una pagina promozionale, che si esercita la forza percussiva del discorso, ad esempio, è stato Umberto Eco a dire che la figura retorica più ricorrente in pubblicità è l’antonomasia.

Dalla pubblicità, gli strumenti formali e argomentativi della retorica si sono spostati in aree contigue, molto a ridosso del mondo delle aziende. A partire dagli anni Novanta, si è assistito alla nascita di corsi universitari in Public Speaking, soprattutto nel mondo anglosassone, per apprendere a veicolare oralmente testi in situazioni differenziate e a perimetrarli entro unità temporali convenute. Poi si è diffuso il branding, l’arte di fare parlare un marchio, di dare un volto discorsivo al logo, regalandogli un’identità simbolica e sociale che altrimenti non avrebbe: la marca come istanza semiotica svolge infatti molteplici funzioni discorsive di identificazione, orientamento, garanzia, simbolizzazione. Infine, si è cominciata a sentire l’esigenza di stabilire nuovi protocolli discorsivi in rapporto alla videoscrittura e alla genesi di inediti modelli testuali. Comunicazione, oggi, non è ancora una disciplina ma una prassi didattica attivata ovunque, giunta in un momento in cui molti tra noi si sono convinti che l’eccessiva specializzazione di alcune aree conoscitive abbia ormai reso pensabile e possibile la nascita di nuovi soggetti disciplinari, che siano all’altezza di tale compito.

Ripartendo dai lavori pioneristici di George Lakoff e Mark Johnson, i neuroscienziati si sono interessati a cosa accade nel nostro cervello quando processiamo alcuni tropi quali, ad esempio, la metafora e la metonimia, dimostrando che non si tratta soltanto di orpelli discorsivi, bensì di processi cognitivi che ci permettono anche di comprendere la realtà. Per tale motivo, l’advertising ne fa largo uso: infatti, la metafora si configura come una delle strategie retoriche privilegiate dai pubblicitari, perché si rivela in grado di influire direttamente sul processo di coinvolgimento empatico del consumatore, sia in termini cognitivi che emotivi.

Nondimeno, negli ultimi quindici anni la comunità scientifica, grazie al cognitivismo e alle neuroscienze, ha iniziato a identificare nella metonimia un ruolo primario nell’ecosistema mentale e addirittura una supremazia a livello bio-evolutivo e neuro-fisiologico, a detrimento della metafora, fenomeno secondario e più slegato dalle sfere esperienziali dell’habitat quotidiano. Il funzionamento del cervello è programmato per utilizzare metonimie sia grazie alla capacità del ragionamento inferenziale, sia grazie al fatto che emozioni e sintomi fisiologici si linkano in una incessante operazione metonimica, in particolare dove gli stimoli condizionati predicono e sussumono le emozioni incondizionate, di fatto facilitando un autocontrollo pulsionale.

Per approfondire:

Calabrese S. (2013), Retorica e scienze neuro-cognitive, Roma, Carocci.

Calabrese S. (2008), Retorica del linguaggio pubblicitario, Bologna, Archetipolibri.

Calabrese S. (2007), Il potere della parola: dalla retorica alla comunicazione, Udine, Forum.

Calabrese S. (2012), La metafora e i neuroni: stato dell’arte, in “Enthymema”, 7, pp.1-15.

Calabrese S., Conti V. (2020), Cara, vecchia metonimia: un ritorno inatteso, in “Enthymema”, 25, pp.  225-249.